Ghost of Yōtei

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Ghost of Yōtei

Ghost of Tsushima è stato un piccolo capolavoro. Un’esperienza viscerale ed entusiasmante, una vera e propria “power fantasy” da samurai che ci aveva conquistato non solo per il suo gameplay, ma soprattutto per la forza del suo protagonista, Jin Sakai, e il suo struggente conflitto interiore tra onore e necessità. Era una storia potente. Per questo, l’attesa per Ghost of Yōtei era altissima.

Sucker Punch ha deciso di non creare un semplice sequel, ma di saltare avanti di secoli, raccontando una storia nuova, più cupa e personale. Il risultato è un gioco tecnicamente sbalorditivo, con un gameplay divertente e ancora più vario, ma che purtroppo perde per strada il cuore e l’anima del suo predecessore.

Su al Nord

La narrativa di Ghost of Yōtei è, senza mezzi termini, il suo punto più debole. Abbandonato il complesso codice del Bushido, ci troviamo di fronte a una trama che si riduce a una semplice e lineare vendetta. La nostra nuova protagonista, Atsu, è mossa dal desiderio di uccidere i sei responsabili del massacro della sua famiglia. Le sue motivazioni sono chiare, ma mancano completamente della profondità e del conflitto che avevano reso grande il viaggio di Jin. Non aiuta il fatto che la premessa narrativa, e potremmo anche dire in parte anche il suo svolgimento, sia fin troppo simile a quella vista di recente in Assassin’s Creed Shadows, lasciando una costante sensazione di “già visto”. A questo si aggiunge una scelta di world-building che abbiamo trovato peculiare e poco realistica.

Il gioco è decisamente “moderno” nella sua rappresentazione sociale: i personaggi forti, onorevoli e capaci sono quasi esclusivamente donne, mentre le figure maschili sono per lo più relegate a ruoli di antagonisti, codardi o inetti, il che ha poco senso nel contesto storico del Giappone del 1600. In una società all’epoca (e per certi versi, ancora oggi) profondamente maschilista, è strano vedere come tutti accettino una samurai donna senza battere ciglio. Invece di mostrarci un percorso in cui Atsu si guadagna con fatica il suo prestigio, il suo status viene dato per scontato, minando l’immersione e il realismo del mondo di gioco.

Ti ammazzo con 6 armi diverse, bro

Se la storia un po’ delude, è sul fronte del gameplay che Ghost of Yōtei brilla e dimostra di essere un sequel maturo e ben ponderato. Il sistema di combattimento, già eccellente nel predecessore, è stato ampliato e rifinito in modo intelligente. L’abbandono delle “stance” di Jin in favore di un sistema multi-arma rende gli scontri più dinamici e strategici. La katana rimane il fulcro bilanciato del nostro arsenale, ma la vera novità è la possibilità di passare istantaneamente ad altre armi per contrastare specifiche tipologie di nemici.

La kusarigama (falce a catena) è una gioia da usare: è perfetta per rompere gli scudi, controllare la folla con ampi attacchi circolari e persino per eseguire letali assassinii a distanza, trascinando i nemici a noi. L’odachi, una spada a due mani lenta ma devastante, è l’ideale per rompere la guardia dei bruti corazzati, mentre la lancia e le doppie katane offrono opzioni tattiche per gestire avversari agili. Questo crea una sorta di dinamica in cui dobbiamo restare costantemente all’erta e che, se da un lato costringe il giocatore a usare tutto l’arsenale, dall’altro a volte dà la sensazione che la libertà tattica sia limitata, rendendo alcune armi quasi inutili contro i nemici sbagliati. Le meccaniche stealth, d’altro canto, restano funzionali ma basilari: erba alta, nemici di vedetta e uccisioni concatenate non portano nulla di nuovo al genere, anche se la possibilità di usare la kusarigama per un’eliminazione silenziosa dalla distanza è un’ottima aggiunta.

Il mondo di gioco, le gelide terre di Ezo (l’odierna Hokkaido), è stato arricchito con nuove attività secondarie, che espandono in modo interessante la formula. Tuttavia, è innegabile che sotto questa superficie organica – con il vento e gli animali che ci guidano al posto di freddi indicatori – si nasconda una struttura da open world molto classica. Le missioni secondarie, purtroppo, ricadono spesso nel cliché del “vai al punto A e uccidi tutti”, risultando a tratti ripetitive. Fortunatamente, il mondo è anche costellato di attività più interessanti, come la risoluzione di misteri soprannaturali e la caccia a fuorilegge elusivi. Una nota va fatta sull’ambientazione stessa: pur essendo magnificamente realizzata, alcuni potrebbero rimanere delusi dal fatto che molti dei suoi panorami, più brulli e selvaggi, non corrispondano all’immagine tradizionale del Giappone a cui siamo abituati. Tuttavia, abbiamo apprezzato moltissimo una scelta culturale di grande spessore: l’inclusione del popolo Ainu e delle loro tradizioni. Vedere rappresentata con rispetto la diversità di questo popolo, fin troppo spesso marginalizzato nella storia (e non solo) del Giappone, è un dettaglio che aggiunge profondità e valore al mondo di gioco.

La progressione del personaggio abbandona i classici punti esperienza in favore di un sistema legato all’esplorazione: trovare santuari nascosti conferisce punti abilità, spingendo il giocatore a esplorare ogni anfratto. A questo si aggiunge la meccanica del compagno lupo: all’inizio autonomo, il legame con lui si costruisce missione dopo missione, fino a renderlo un alleato letale e reattivo ai nostri comandi, un’idea che abbiamo trovato ben implementata, anche se narrativamente debole e non proprio coerente.

Una gioia per gli occhi

Visivamente, su PlayStation 5 Pro, il gioco è davvero spettacolare. Sucker Punch ha superato se stessa, creando un mondo di gioco di una bellezza mozzafiato. Dimenticate la Tsushima più monotematica del primo capitolo; Ezo è un’isola viva, che pulsa di una diversità ambientale sorprendente. Ci siamo persi nelle sue pianure lussureggianti, abbiamo scalato montagne sferzate dalla neve e ci siamo addentrati in foreste vibranti e zone umide spettrali. La direzione artistica è spettacolare nel bilanciare realismo e stilizzazione: le colline sono decorate da macchie di fiori dai colori quasi innaturali, che guidano l’occhio in modo organico. Piccoli dettagli, come le impronte che vengono lentamente cancellate da una nevicata, creano un’atmosfera incredibile.

Questa ambizione cinematografica, però, mostra una doppia faccia. Le cutscene pre-renderizzate sono di una bellezza mozzafiato, con una regia e un’illuminazione impeccabili. Purtroppo, quelle in-engine, specialmente nei dialoghi delle missioni secondarie, soffrono di un’evidente legnosità, con animazioni facciali e inquadrature che non sono all’altezza del resto della produzione, rompendo a tratti l’immersione.

Abbiamo apprezzato molto anche i filtri visivi e sonori, che vanno ad affiancare la classica modalità Kurosawa. Tra tutti, abbiamo trovato geniale la modalità “Watanabe”, che sostituisce la colonna sonora con ritmi lo-fi in stile Samurai Champloo, perfetta per le sessioni di esplorazione più tranquille. Sul fronte tecnico, la nostra prova su PS5 Pro è stata per lo più fluida. Tuttavia, è giusto segnalare che nelle aree più dense e durante le tempeste di neve più intense, abbiamo notato qualche piccolo calo di framerate, un promemoria che nemmeno l’hardware più potente è infinito.

A caccia di fantasmi

Ghost of Yōtei è un gioco a due facce. Da un lato, è un trionfo tecnico e ludico: visivamente è sbalorditivo, con un sistema di combattimento profondo, divertente e più vario che mai. È un piacere da giocare, esplorare e semplicemente da guardare. Dall’altro, però, è un passo indietro sul piano narrativo. La sua storia di vendetta è debole, derivativa e appesantita da scelte di world-building poco credibili che le impediscono di raggiungere la profondità emotiva del suo predecessore. Manca un po’ l’anima, manca il conflitto, manca quel cuore che aveva reso Ghost of Tsushima un capolavoro.

The Good

  • Gameplay divertente, profondo e molto più vario
  • Tecnicamente e visivamente spettacolare
  • Attività open world espanse e interessanti
  • Filtri grafici e sonori di grande atmosfera

The Bad

  • Trama debole, derivativa e inferiore a quella del predecessore
  • Manca il complesso conflitto interiore che caratterizzava Jin Sakai
  • Alcune missioni secondarie possono risultare ripetitive
5

Written by: Dave

Editor in Chief di Joypad, lo trovate anche sui social @MrPipistro

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